Innovare rimanendo autentici
Dopo qualche mese di assenza, ho deciso di ridare nuova linfa al blog con un nuovo format: un format che unisce attualità, fenomeni sociali e branding, osservati e analizzati dal punto di vista di Gusella, che da sempre vede il posizionamento del brand come valore assoluto e come asset fondamentale per la costruzione di brand capaci di durare nel tempo.
Prima di iniziare questo articolo, ritengo necessario fare chiarezza su un termine che troppo spesso viene utilizzato, anche da esperti di marketing, in modo scorretto. È fondamentale che questo concetto sia chiaro, in quanto è il concetto chiave attorno al quale ho costruito questo articolo. Sto parlando del termine “posizionamento”.
Il posizionamento del brand è il processo strategico attraverso cui un’azienda definisce e comunica l’immagine distintiva del proprio marchio nella mente del target di riferimento, con l’obiettivo di differenziarsi dalla concorrenza e creare valore percepito.
Nella costruzione di un brand, il posizionamento non è mai solamente una scelta creativa, ma una decisione strategica di lungo periodo. Significa definire con precisione il “territorio mentale” che il marchio vuole occupare nella mente del consumatore: un mix di percezioni, valori e associazioni che guidano la scelta di acquisto.
Troppo spesso, però, le aziende seguono un driver differente e antepongono la creatività alla strategia, danneggiando e, a volte, compromettendo il posizionamento. Una campagna brillante può attirare attenzione, ma senza aderenza al proprio posizionamento rischia di essere inutile o, peggio, lesiva nel lungo periodo. La vera sfida è quindi mantenere viva l’identità di marca nel tempo, evolvendo il brand senza tradire il proprio DNA.
Per capire i brand e il loro sviluppo, è opportuno analizzare il contesto socioculturale nel quale si stanno evolvendo. In particolare, negli ultimi dieci anni, il panorama socioculturale e comunicativo è diventato più complesso e polarizzato. I brand non sono più solo fornitori di prodotti o servizi, ma attori culturali chiamati a prendere posizione su tematiche ambientali, sociali e, talvolta, culturali. Il concetto di “brand activism” è entrato a pieno titolo nelle strategie di marketing: i consumatori, soprattutto le generazioni più giovani, chiedono coerenza valoriale, trasparenza e impegno sociale.
Nello specifico, in Italia e in Europa, il contesto è particolarmente complesso: il mercato è frammentato culturalmente, i valori dei consumatori variano notevolmente da paese a paese e la sensibilità ai temi identitari è alta. In questo scenario, un rebranding o una scelta di comunicazione che non tenga conto del capitale culturale e della legacy, ovvero l’eredità di un marchio, può mettere a rischio il percepito, l’affezione e il legame costruiti nel tempo.
Per analizzare più nello specifico questo tema, ritengo interessante far riferimento a uno dei casi di maggiore evidenza dell’ultimo periodo.
Jaguar, marchio britannico di auto di lusso con oltre 80 anni di storia, ha deciso di avviare un processo di trasformazione radicale per posizionarsi come brand 100% elettrico entro il 2026, o almeno questa era l’idea. La campagna di lancio “Copy Nothing” ha segnato una rottura totale con l’immagine tradizionale del marchio: estetica minimalista, spot privi di automobili, modelli androgini e codici comunicativi creati per attrarre un pubblico percepito come “culturalmente progressista”.
La strategia ha però avuto l’effetto opposto: il rebranding, definito “woke” e distante dalla realtà del prodotto, ha generato sconcerto tra i clienti storici e numerose critiche da parte degli addetti ai lavori e dei media. A questa percezione negativa è seguito un crollo quasi totale delle vendite.
Ritengo utile prendere ad esempio il caso Jaguar, non tanto per le conseguenze subite dal brand, ma per l’errore commesso; errore che, anche a livelli diversi, possono commettere tutte quelle aziende, grandi e piccole, che non hanno le idee chiare su chi sono e su quale sia il loro posizionamento.
L’errore che spesso viene fatto è quello di seguire tendenze, imitare brand competitor o di altri settori, seguire ideali non propri, senza valutare con attenzione che ogni azienda è diversa dalle altre e senza considerare gli impatti delle scelte su chi il brand lo ama e lo ha amato.
Le persone scelgono i brand di cui si fidano, e la fiducia si costruisce nel tempo — molto tempo — con la coerenza, l’evoluzione razionale e l’aderenza ai propri valori fondanti.
Sono fermamente convinto della fondamentale e determinante necessità di evolvere e innovare, ma non a scapito della coerenza. Un brand, sia esso con una lunga o breve storia, non può permettersi di cancellare la propria eredità per inseguire trend effimeri o, peggio ancora, mutuati da altri brand con storia, valori e organizzazioni diverse. Il rischio è quello di apparire scollegati da se stessi, incoerenti agli occhi del pubblico e, di conseguenza, irrilevanti.
La lezione è quindi molto chiara: il posizionamento non è un esercizio estetico, ma una strategia che deve essere costantemente nutrita da insight sui consumatori, dallo studio del contesto culturale e dal rispetto per il capitale simbolico del brand. La vera sfida è innovare mantenendo una brand identity riconoscibile.
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